Migrante o Expat?
Tempo fa, ormai qualche anno in verità, scrivevo alcune note sullo shock culturale, che riguardavano le modificazioni psichiche e culturali e gli stress che si è costretti ad affrontare, quando si va a vivere in un ambiente molto diverso da quello di appartenenza.
Il materiale che trovai era davvero esiguo e di matrice per lo più antropologica.
Quello di culturale shock stesso, è un costrutto coniato dall’antropologa francese Cora DuBois negli anni cinquanta e poi usato in ambito antropologico–sociologico e, pur essendo datato, mi pare tuttavia ancora ampiamente utilizzabile e valido.
Aggiungo in questo articolo alcune riflessioni sulla psicologia dell’expat.
Oggi molto è cambiato e pure i termini usati. A cominciare dal termine expat, inglese, sta per espatriato. Non è tecnico ma indica una condizione, uno status ed è molto diffuso: molto più raffinato e glamour rispetto al tradizionale concetto di migrante. E soprattutto, dà una idea di internazionalità: come se questa condizione riguardasse una generazione fluida, oltre i confini nazionali.
Certo, anche la migrazione è cambiata: sto parlando di quella recente, che ha avuto un picco negli ultimi anni, soprattutto dai paesi del sud Europa. Riguarda giovani generazioni, generalmente ben formate, ben coscienti e con lavori che portano fuori dal territorio nazionale. Si parte spesso per scelta ma la scelta è spesso forzata e quasi mai indolore.
In rete circola un sacco di materiale riguardo questo fenomeno: frequentandola ci si rende conto della enormità che esso riveste.
La rete è virtualmente un grande collante che tiene insieme persone che stanno anche in continenti diversi ma accomunate dalla stessa esperienza. In questo fenomeno la rete è davvero importante e sostiene, aiuta, collega, alimenta relazioni e contatti. La rete sostiene.
Il sito Italians in fuga è un ottimo esempio, anche su Expat Blog trovate tanti spunti e molte risorse.
L’aspetto emotivo della condizione di Expat
Tempo fa mi imbattei in un simpatico e intelligente articolo, che metteva in guardia rispetto alla tentazione di sottovalutare l’aspetto emotivo della condizione di expat! Parto da questa interessante analisi per alcune considerazioni e riflessioni, anche sulla base di esperienze sia personali che professionali.
Molti fuggono all’estero alla ricerca di condizioni migliori di vita, lavoro, opportunità. Ma prima o poi dovranno fare i conti con alcuni aspetti emotivi che cercherò ora di sintetizzare:
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senso di sradicamento, alienazione;
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solitudine;
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problemi d’identità;
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fragilità emotiva;
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mancanza del sostegno di amici, e parenti.
Si tratta di aspetti che possono apparire banali oppure scontati: ovvio che ti manca la famiglia e gli amici, quando stai all’estero!
Ma il senso di solitudine e di estraniamento che può colpire chi vive lontano dal suo ambiente, sono davvero importanti e possono mettere a nudo delle fragilità che non si sospettava di avere.
Quindi è vero: andare all’estero, se da un lato offre opportunità di vita e condizioni lavorative decisamente migliori, dall’altro comporta delle sfide emotive e culturali, inimmaginabili prima della partenza. Ma le sfide sono stimolanti e arricchenti, giusto?
Certamente è più facile trasferirsi, cambiare paese, abitudini, amici quando si è più giovani e dunque più adattabili e naturalmente portati a integrarsi. Le persone più mature faticano un poco a integrarsi in realtà diverse da quelle di appartenenza, a fronte però di una maggior stabilità emotiva e, nonostante il fenomeno degli expat sia per lo più giovanile, una buona percentuale coinvolge anche persone oltre i trentacinque anni.
Consiglio dunque di valutare a fondo e vagliare la decisione da prendere. Spesso più che una decisione si tratta di una scelta forzata, dicevamo. Ad ogni modo, è sempre importante cercare di attrezzarsi adeguatamente, conoscendo a fondo i propri punti di forza e di debolezza: valutando bene motivazioni superficiali e profonde; ripensando alle proprie appartenenze. Da cosa fuggo, andandomene? Che cosa cerco? Che cosa non posso lasciare indietro? Sono disposto/a a tornare, ammettendo, in un certo senso, una sconfitta? O mi lascio una porta aperta per rientrare? Sono domande che possiamo porci, ad esempio, per andare più a fondo.
E poi è fondamentale che ti prepari rispetto a dove andrai.
Imparare la lingua del paese dove vivrai è imprescindibile anche se dovrai lavorare in inglese: la vita non si risolve nel lavoro! Informati più che puoi sul luogo: non solo clima, costumi; cibo; ma anche funzionamento del sistema sanitario; scolastico; previdenziale, etc. E quando sarai là, cerca di costruirti una rete sociale e di sostegno, oltre che dei canali di contatto con quella precedente. E ricorda: conoscere un paese vivendoci e lavorandoci è molto diverso da conoscerlo per averlo visitato! Molti giovani accettano lavori o studiano all’estero per tempi brevi, così da capirci un po’ di più: mi pare un’ottima strategia!
Infine, se vedi che non fa per te, se valutando vantaggi e svantaggi della tua nuova condizione, trovi che questi siano decisamente più numerosi, valuta ancora di cambiare. Attenzione però, datti un po’ di tempo per adattarti in un paese: il processo di adattamento non è mai immediato e necessita di un certo tempo. Tale tempo è variabile e dipende da molti fattori: direi che da uno a due anni è il tempo che di solito ci fa ben capire se un luogo sia adatto o meno a noi. Infatti, se la condizione di expat è la stessa, non lo è il paese dove andremo a vivere: ci son paesi che ci sono affini, altri meno. Per intenderci: non è la stessa cosa andare a vivere in Svezia o in Spagna, due paesi piuttosto diversi sul piano sia climatico che culturale. Non tutti si adatterebbero ai rigori svedesi ma conosco persone che si son trovate meravigliosamente. Il Canada, ad esempio, è molto expat-friendly: favorisce l’integrazione e aiuta tantissimo chi viene da fuori. Ma ci sono aspetti che un europeo fatica ad accettare e questo molto soggettivo! C’è chi non resisterebbe tre giorni in Giappone e chi invece si è trovato nel proprio ambiente ideale!
Valuta bene dove andrai a parare!
Una cosa però ti consiglio di tenere a mente: ogni cambiamento è sempre arricchente ma implica anche un enorme sforzo di adattamento e dispendio energetico. Pensaci dunque a fondo.
Se hai dubbi o se vuoi chiarimenti in merito, contattami !
2 commenti su “Psicologia dell’Expat”
Grazie! Mi occupo da anni di formazione di giovani che partono per il servizio civile all’estero e nel tuo post riporta considerazioni importanti (spesso non sufficientemente valutate!) su cui cerchiamo di far riflettere anche i nostri ragazzi durante gli incontri preparatori e nell’accompagnamento dell’esperienza a distanza.
Grazie a lei, per il riscontro!