Lo Shock Culturale

La prima volta che udii la definizione di shock culturale mi illuminai e pensai: “Allora esiste…dunque, non succede solo a me!!!” Ebbene, pare che in forme differenti e in gradi diversi accada a tutti coloro che per vari e svariati motivi siano costretti a cambiare paese e vi debbano rimanere per periodi prolungati. Ma esattamente di che cosa si tratta?

Lo shock culturale è un fenomeno che accade solitamente nei primi mesi in cui ci si trasferisce in un altro paese, è associato a sentimenti di estraniamento, irritabilità, ostilità, indecisione frustrazione, tristezza per la lontananza da casa, imputabili alle differenze tra la cultura ospitante e la propria cultura. Chiaramente, tanto maggiori sono tali differenze, tanto maggiore sarà il fenomeno. Tali differenze possono portare a repressione, regressione, isolamento e rifiuto.
Lo shock culturale è determinato dall’abbandono dei riferimenti relativi alla cultura di appartenenza, dovuto all’inserimento in un nuovo contesto, fatto di elementi almeno in parte sconosciuti e, pertanto, psicologicamente problematici perché difficili da accettare immediatamente. Essa generalmente comporta una fase traumatica acuta iniziale, ma col proseguire dell’esperienza migratoria, lo shock può  perdurare e portare a sentimenti sgradevoli che si prolungano nel tempo.
In effetti, vivere in un paese straniero implica un grande sforzo di adattamento e può essere fonte di stress e di sofferenza, poiché vengono a mancare i riferimenti culturali e familiari che normalmente ci aiutano a superare le difficoltà della vita, ma nonostante ciò può essere indubbiamente una esperienza arricchente e una opportunità di crescita.
E certo, poter descrivere uno shock culturale è un’esperienza non ordinaria, perché è destabilizzante e feconda; si tratta di una possibilità di riflettere, principalmente su se stessi, e di conoscersi meglio. Cambiando le prospettive, non solo cambia la visione del mondo, ma si diventa molto più sensibili, disponibili ed aperti alle sollecitazioni provenienti dalla realtà che ci circonda e tutto ciò ci forza a ripensare ai nostri riferimenti culturali e di appartenenza, che ora non sono più così scontati. Insomma, un processo arricchente ma a volte doloroso e faticoso!
Il sociologo D. H. Brown, nel 1986 ha descritto l’adattamento ad una nuova cultura attraverso quattro fasi, non necessariamente da pensarsi in termini strettamente cronologici. Brown mutuò questo concetto dalle teorie dell’antropologo canadese Kalervo Ogberg ( Cultural Shock: Adjustment to New Cultural Environments). Oberg, riprendendo il termine coniato originalmente dalla antropologa francese Cora DuBois, elaborò negli anni cinquanta, la teoria seconda la quale il concetto di shock culturale è suddivisibile in quattro fasi distinte, ognuna delle quali presenta le proprie situazioni e sintomi. Le fasi individuate da Oberg, comunque, possono essere soggette a variazioni ed essere complesse e non lineari.

Le quattro fasi

Luna di miele
Durante questo periodo, le differenze tra la vecchia e la nuova cultura sono viste in una luce romantica, meravigliosa e nuova. Per esempio, nel trasferirsi in un nuovo paese, si possono amare i cibi nuovi, il ritmo della vita, le abitudini della gente, gli edifici e così via. Durante le
prime settimane, si subisce il fascino della nuova cultura. Questo periodo è pieno di nuove scoperte. Ma come tutte le lune di miele, anche questa avrà un termine e sarà seguita da una inevitabile disillusione. E così, vediamo che quando un individuo va a studiare, vivere o lavorare in un paese nuovo,
ad un certo punto comincerà ad avere difficoltà con la lingua, l’alloggio, gli amici, la scuola, il lavoro.

Alienazione o ritiro
Dopo qualche tempo (di solito tre mesi, ma a volte prima o poi, a seconda dell’individuo),  l’eccitazione iniziale può cedere il passo a sentimenti spiacevoli di frustrazione e rabbia. I problemi quotidiani sembrano ostacoli insormontabili: le barriere linguistiche, le differenze in materia di igiene
pubblica, la sicurezza del traffico, l’accessibilità e qualità degli alimenti possono aumentare il senso di distacco dall’ambiente circostante. Emergono altre difficoltà da superare, come adattamenti dei bioritmi, reperibilità di farmaci, accesso ai servizi.
Ma la sfida più difficile riguarda la comunicazione: coloro che si stanno adattando a una nuova cultura si sentono spessi soli e con la nostalgia di casa perché devono abituarsi al nuovo ambiente. Le barriera linguistiche possono diventare un ostacolo nella creazione di nuovi rapporti: emergono
aspetti sottili come le differenze nel linguaggio del corpo e nei segnali non verbali,  nel tono di conversazione,  per non parlare  delle cosiddette “gaffe interculturali” !

Regolazione
Dopo qualche tempo (dai 6 ai 12 mesi) ci si comincia ad abituare alla nuova cultura e si sviluppano delle routine: si sa cosa aspettarsi dalle situazioni e non si vive più tutto come se fosse nuovo, la quotidianità diventa “normale”. Si cominciano anche a sviluppare capacità di problem-solving nella nuova cultura e si accettano usi e costumi locali con atteggiamento positivo. Si comincia a trovare senso nella nuova cultura, mentre diminuiscono le reazioni negative.

Padronanza
Infine, coloro che raggiungono questa fase sono in grado di partecipare tranquillamente e a pieno alla cultura ospitante. Ma padronanza non significa conversione totale, le persone spesso conservano molti tratti dalla loro cultura precedente, come accenti e linguaggi. È spesso definita anche come la fase della biculturalità.

Far rientrare il faticoso e lento cammino di integrazione in queste fasi di adattamento, è riduttivo e in parte superficiale, le fasi a volte si accavallano e non rispettano i tempi presentati. Inoltre, spesso accade di ritornare indietro e a volte, purtroppo, le fasi finali non vengono raggiunte e molti stranieri vivono isolati e alieni nei paesi che li ospitano.
Inoltre, non si tratta solo di apprendere una nuova lingua, nuovi modi di pensare, nuove abitudini etc., questo processo è una continua e ininterrotta dialettica tra cultura di origine e nuova cultura, gruppi di appartenenza antichi e nuovi, senso di tradizione e senso di tradimento per le proprie appartenenze profonde.
Non sempre si tratta di processi di cui siamo consapevoli, ossia che avvengono in forma chiara e consapevole, spesso infatti essi sono accompagnati da dubbi e da vari gradi di sofferenza. Comunque, è sempre un percorso arricchente per quanto non sempre facile e, a volte, molto faticoso!

Bibliografia:

Letture consigliate:

  • Per approfondire il concetto di transculturalità : Intervista a Paolo Inghilleri, Professore Ordinario di Psicologia Sociale, Direttore Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente Università degli Studi di Milano. Membro del Comitato Scientifico del Corso di Specializzazione in Psicoterapia Transculturale.


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