Storie di resilienza, storie al femminile.
Oggi vi voglio raccontare la sorprendente storia di Analice.
Da bambina venne abbandonata dalla famiglia. Lavorò come schiava fino a quando non si sposò. Incinta, fuggì dal marito violento. A 37 anni smise di fumare e cominciò a correre. Oggi a 68 anni, trova le maratone troppo facili e per questo preferisce le gare di oltre 100 km.
Erano le 23,55 del 31 dicembre 1980, quando Analice Silva, 37 anni, spense l’ultima sigaretta. Nei giorni precedenti aveva letto in una rivista che passava di tavolino in tavolino nel caffè di Rio de Janeiro, dove lavorava come cameriera, che i polmoni di un fumatore impiegano dieci anni per ripulirsi dai danni del
fumo e ritornare sani. “Dieci anni sono tanti! Mi sono spaventata! Dunque pensai che l’unico modo per ritornare ad avere i mie polmoni color rosa e sani, fosse correndo. E cominciai subito quella sera stessa.” In quella notte di Capodanno Analice indossava delle ciabatte e pantaloncini e canotta. Così com’era, scese fino a Copacabana e cominciò a correre. “Corsi per 16 chilometri. Era la prima volta che correvo in vita mia. Il giorno dopo ero tutta dolorante!” Ricorda in una recente intervista, rilasciata alla rivista portoghese “Sabado”.
Analice Silva, 68 anni, vive in un piccolo appartamento a Odivelas, nei sobborghi di Lisbona, con il gatto Kikas, che tratta come un figlio, ha una pensione di 272 euro, si prende cura di un signore anziano per integrare la pensione e continua a correre. Ma non corre più le competizioni di 16 o 20 km, il mimino che e fa per avere un po’ di soddisfazione, sono le maratone. E comunque anche queste sono troppo facili!
“Mi dispiace molto di non avere tenuto conto dei chilometri che ho già corso nella mia vita. Di certo sarei entrata nei Guinness. Di gare da strada da 100 km ne ho già fatte 22; le 100 km di montagna molte di più ma ne ho perso il conto.”
Negli ultimi tre anni Analice ha corso I Cammini del Tago, corsa di 146 km. È stata anche in Spagna a correre i 167 km, da Alhambra alla Serra Nevada (con 50km sempre in salita). Ha corso la Libona- Maçao (354km). La gara più lunga che ha fatto è stata il Giro del Minho (385 km). Le maratone e mezze maratone sono numerose che non si contano più.
E vuole continuare correre ancora molto fino ai settanta anni.
E le piacerebbe realizzare il più grande sogno della sua vita la “Maraton des Sables”: una gara di 243 km nel deserto del Sahara, in Marocco. “È un sogno, è il mio sogno. So che non potrà accadere perché è una competizione molto cara, non ho i soldi necessari e nessuno vuole sponsorizzare una vecchia. Ma finché sarò viva ho la speranza di poterla fare”.
La storia
Esperança è il nome del villaggio dove Analice nacque, nello stato di Paraíba nel nord-est del Brasile. “Avevo 6 fratelli ma quattro morirono. Rimanemmo solo io e mia sorella minore, in una casa senza amore, non ero felice”. Quando aveva tre anni il padre la consegnò ad una signora che viveva nella città vicina, Campinha Grande e fu lei che fece di Analice la sua schiava. “ Facevo tutto quello che dovevo fare da quando avevo tre o quattro anni: mi prendevo cura dei più piccoli e affrontavo il lavoro dei campi o della fattoria. Era proprio schiavitù. Quello che ricevevo in cambio era un letto, cibo solo quando ce n’era…” Ancora oggi si ricorda di essere stata castigata perché un giorno mangiò un pezzo di pane, senza aver chiesto l’autorizzazione. “ Era gente povera che voleva comportarsi da ricca, che voleva avere figli ma che non poteva pagare e allora aveva degli schiavi”.
Venne infine restituita alla famiglia d’origine quando aveva otto anni. Trovò la stessa casa che aveva lasciato: nessun conforto, solo violenza. E quindi fuggì, entrò in un autobus e raggiunse Recife, dove continuò a lavorare come schiava, senza ricevere un salario. Fino al giorno in cui conobbe Evandro, un pescatore di aragoste di Recife di cui si innamorò. “Ma prima di sposarci, gli dissi che avrei tollerato tutto nel matrimonio, tranne la violenza”. Evandro accettò la condizione che prese alla lettera: spendeva tutto ciò che guadagnava per bere e in donne. “Ma io sopportavo purché non mi picchiasse”. Però la pace durò poco: erano sposati da sei mesi, quando una discussione degenerò: “Lui mi diede una spinta e non fu nemmeno una cosa molto violenta ma accadde di fronte ad una vicina. Se la cose fosse avvenuta in casa forse lo avrei perdonato. Ma siccome avvenne di fronte ad un altra persona, provai una tal vergogna, una tal rabbia che ne me ne andai.” Analice rivoltò il materasso dove il marito teneva i soldi e prese ciò che le sarebbe bastato per il biglietto dell’autobus per Rio de Janeiro: “Furono otto giorni di viaggio, per strade di asfalto. Ho sofferto tanta fame e tanto freddo che solo io so!”.
Giunse a Rio quasi senza soldi, senza amici o parenti. “ Comprai un giornale e cominciai a guardare gli annunci di lavoro; trovai un impiego in casa di alcune persone e feci ciò che avevo sempre fatto: pulizie, mi prendevo cura dei bambini, un po’di tutto”. Dopo alcune settimane sentì nel suo corpo qualcosa di diverso: era incinta. “Non immaginavo di essere rimasta incinta a Recife ma non dissi nulla a mio marito, il quale nemmeno sapeva che mi trovavo a Rio. Gli avevo lasciato un biglietto per dirgli che mi dirigevo verso nord e invece me ne andai al sud così che non mi cercasse.
La gravidanza era al settimo mese quando il bimbo diede segnali che voleva nascere. Analice andò all’ ospedale e la fecero partorire ma il bimbo nacque morto: “ Oggi penso che sia andata bene così. Non avrei potuto crescere un bimbo in quelle condizioni. Perché poi? Perché diventasse un vagabondo, un disgraziato?”.
Non volle più avere figli. Nemmeno quando si innamorò di Julio, un boliviano “molto per bene” e col quale fu felice per nove anni. Così con un lavoro di giorno e una certa stabilità in casa, Analice ne approfittò per frequentare un corso serale e prendere il diploma della scuola dell’obbligo. “Erano già gli anni settanta e sapevo che restando analfabeta non sarei andata da nessuna parte, fu per questo che studiai.”
E così giunse a quel capodanno del 1980, il giorno dell’ultima sigaretta e della prima corsa. Il 1° gennaio corse di nuovo e poi di nuovo il due, il tre e così via, tutti i giorni del mese. Un’altra notizia, letta sul giornale le fece prendere la corsa più sul serio: “Lessi sul giornale “Corsa femminile Avon” e decisi di parteciparvi. Vi andai e vinsi una medaglia e una maglietta. Pensavo di essere una campionessa. Alcuni giorni dopo andai alla corsa di Corcovado: altra medaglia e altra maglietta. Il mese successivo partecipai alla prima mezza maratona; ci misi tre ore”. Ricorda Analice scoppiando in una risata.
“L’anno seguente arrivarono la prima maratona e la prima gara dei 100 km tra Uberlândia e Uberaba, in montagna sempre a salire e a scendere. Vinsi questa competizione facendo 11 ore e 42 minuti che fu il primato sud americano e che restò tale per molto tempo! Nei tre anni successivi partecipai e vinsi sempre questa gara.”
Analice comincio allora a guardare al calendario delle competizioni internazionali. Voleva fare la sua quinta gara dei 100 km all’estero. Vide che ve ne era una a Satander in Spagna: “Ci andai e vinsi. Poi però non volevo ritornare in Brasile; andai a Madrid al consolato brasiliano e fu l’ambasciatore stesso che mi diede i soldi per venire a Lisbona”.
Analice arrivò in Portogallo alla fine del 1986. conosceva solo una persona Eugenia Gaita, una podista amatoriale, infermiera all’ospedale di S. Josè. Trovò lavoro in casa di una coppia che viveva a Lisbona. “ Ma era come in Brasile, non guadagnavo!! Lavoravo per avere del cibo e un letto”.
Senza il tempo per allenarsi, aveva trovato uno stratagemma: l’edificio dove viveva aveva sette piani, saliva e scendeva le scale per tre ore di seguito. “Era buono per allenarsi!” Nei giorni più tranquilli andava allo stadio di atletica, là vicino e faceva giri di pista fino a raggiungere i 50 km. Nei giorni di riposo andava coi mezzi fino a Cais de Sodré e correva fino a Cascais e poi ritornava. Oppure prendeva la corriera fino a Setúbal e attraversava correndo la Serra di Arrabida fino a Sesimbra: “ Non uscivo di casa per correre meno di tre ore. Sennò non è allenamento!”
Oggi Analice non si allena più; fa solo gare. Non si ammala mai, solo lamenta le crisi di sciatica che vanno e vengono. Vuole correre fino al 20 dicembre del 2013 quando compierà 70 anni. “Penso che basti. Ma forse quando arriverà il momento penserò che sono più felice se continuo a correre!”.
Ho conosciuto questa bella storia grazie a Graça, una podista amatoriale, che mi ha passato l’appello di Carlos Sá, appello che è diventato molto popolare in rete tra Runners portoghesi. Questo articolo è la traduzione di quello scritto da Carlos Sá nel suo sito. Carlos propose una colletta per raggiungere la quota che avrebbe permesso ad Analice di partecipare alla Maratona delle Sabbie, gara che era il sogno della sua vita.
Ma poi com’è andata a finire?
Grazie alla solidarietà dei tantissimi che hanno contribuito, Analice ha potuto iscriversi alla MDS 2013. Non solo Analice ha partecipato e ha concluso la prova, che già di per sé una grande impresa, ma è anche arrivata prima della sua categoria! Ricordo che Analice aveva all’epoca 69 anni!
Grazie mille, Analice, per questa testimonianza di resilienza, tenacia e volontà, tutte declinate al femminile!
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