Crisi Economica e Suicidio

Di pochi giorni fa la notizia: Suicida l’editore Giorgio Zanardi L’uomo era titolare dell’omonimo gruppo editoriale, ed era sommerso dai debiti. Lascia la moglie e due figlie.

Mattino di Padova online del 25.09.2013. VENEZIA. Indebitati. Angosciati. Spezzati dalla tensione e dalla vergogna. I piccoli capitani d’impresa veneti. La recessione infrange il loro microcosmo – ispirato a lavoro e reddito, crescita e dignità sociale – dove il fallimento economico assume contorni esistenziali e la lettera di licenziamento suona tradimento del patto interclassista che vige in azienda. Molti non resistono e si tolgono la vita. Altri cercano un salvagente e a volte lo trovano. (…)Un numero verde attivo h24 e sette giorni su sette, dieci psicologi dell’università di Padova coordinati da Emilia Laugelli che non si limitano all’ascolto ma prendono in carico i casi più delicati, seguendoli passo a passo, per mesi. da Equipe anti-suicidi in Veneto: 200 imprenditori salvati in extremis

crisi

Nonostante l’attenzione mediatica al drammatico fenomeno sia lievemente scesa, esso continua strisciante, con tutto il suo carico di angosce e interrogativi. Colgo l’occasione per riportare qui, un articolo che scrissi lo scorso anno quando era quotidiana al notizia di suicidi causati dalla crisi economica. Credo possa essere un buono spunto di riflessione.

Crisi Economica e Suicidio

Non è facile parlare di suicidio. Non lo è per diverse e intuibili ragioni. Si tratta di un argomento delicatissimo, che muove tanti sentimenti e tanti dolori profondi spesso indicibili. Il vuoto lasciato da una persona che si toglie la vita è un vuoto pieno di angoscia e spesso privo di senso, un vuoto difficile da affrontare in quanto irreversibile e ci mette con le spalle al muro e di fronte alla impotenza che probabilmente ha vissuto il suicida stesso.

Confrontandomi con colleghi e amici su questo tema, colgo una sorta di paura di toccare, una delicatezza; ma colgo anche una voglia di capire, magari chiedendo ad un esperto che dall’alto e dalla distanza della sua professionalità aiuti a comprendere ciò che rimanda all’assenza di senso. Questo è sempre stato vero, ma lo è particolarmente di questi tempi, in cui il fenomeno sembra essere divenuto epidemico.
Un misto di dolore, compassione ma anche rabbia e voglia di andare a fondo per capire meglio. Ecco cosa mi succede, come a tante persone a fronte degli innumerevoli casi di suicido che riempiono le pagine dei giornali e dei TG.
La rabbia è in gran parte dovuta all’effetto sensazionalistico che trovo irritante nella comunicazione sociale e nella stampa, vorrei in primis guardare alle statistiche con un occhio critico e possibilmente obiettivo. Ci ho provato, in effetti, col risultato di non capire granché in più e ora cercherò di spiegare come mai.

I dati ufficiali disponibili non sono recentissimi ma ad essere ligi ad essi, pare che almeno in termini assoluti, il numero dei suicidi in Italia non sia aumentato molto. Altri dati e studi più recenti, invece, sottolineano l’aumento della percentuale dei suicidi del 5% all’interno della EU, soprattutto per motivazioni economiche.

Secondo lo studio della Sapienza chi si uccide per ragioni economiche lo fa per incapacità di fronteggiare la situazione personale, della famiglia o dell’azienda (46%), perché ha perso il posto di lavoro (28%), perché non ce la fa a saldare debiti verso l’erario (16%) o per ritardo dei pagamenti dei committenti (10%). (Vedi)

E il fenomeno non è solo italiano ma ha colpito duramente in Grecia e in altri paesi dove la crisi si è sentita più drammaticamente.
Se allarghiamo l’orizzonte, comunque, notiamo come le percentuali nel sud Europa sono quasi irrisorie se confrontate con quelle della Germania e dei paesi nordici, dove da sempre il numero dei suicidi è molto più elevato. Luoghi ove la crisi di certo non è stata così rilevante.
Un fatto culturale, certo, ma va aggiunto che probabilmente nel Sud Europa tali dati sono sottostimati per motivi di stigma sociale e religioso. Dunque c’è un aumento, ma è non così drammatico; resta il fatto che i dati sono comunque in contrasto con titoli di giornali, telegiornali e notizie che quasi quotidianamente ci invadono.

Mi colpì a tal proposito una serie di commenti che insultavano pesantemente la giornalista che scrisse appunto l’articolo che ho citato, che invitava ad essere cauti e a non farsi prendere dalla emotività e ad analizzare freddamente i dati. Articolo che ebbe un certo successo e sollevò reazioni di segno contrario. Ma forse è proprio questo il punto: come si può essere freddi e razionali di fronte a questi dati? E se anche fosse che in termini assoluti i suicidi non sono così drammaticamente aumentati in Italia, vogliamo negare o stigmatizzare il fatto che un numero comunque toccante ci viene quotidianamente narrato dai media o vogliamo pensare che si tratta di una strumentalizzazione dei mezzi di comunicazione, che vogliono cavalcare l’onda sensazionalistica di queste terribili notizie?

Riprendendo la lucida analisi fatta da Luciano Casolari nel suo Blog, forse non è effettivamente aumentato in modo così elevato il numero dei suicidi, ma piuttosto assistiamo ad una sorta di sovraesposizione mediatica. In altri momenti gli atti suicidi non facevano notizia, mentre ora sono maggiormente considerati? Le persone sono più sensibili a queste notizie perché sentono che in qualche modo le riguardano: molti di noi si chiedono: “e se perdessi il lavoro e se la mia attività fallisse, che farei? Sarei capace di non cadere nella più profonda disperazione?”.

Insomma, ciò che mi preme sottolineare è che le notizie sono quotidiane e hanno un impatto emotivo e informativo fortissimo e forse addirittura contribuiscono ad alimentare il fenomeno.
Mi rendo conto che più che di suicidi, sto parlando della comunicazione e della diffusione delle notizie su di essi, ma forse si tratta di due facce della stessa medaglia. Da aggiungere che tra le linee guida internazionali si raccomanda che le notizie dei suicidi sui media vengano omesse o vengano date in modo essenziale, insomma senza troppa enfasi.
In effetti,  quando l’attenzione mediatica comincia ad essere più forte per eventi suicidari, si assiste a una sorta di epidemia di episodi analoghi. Se è vero che non ne è la causa, essa è potenzialmente un fattore scatenante. È pur vero che poi l’attenzione a tali eventi diventa particolarmente alta quando è presente una sensibilizzazione diffusa ad essi, in un circolo che tende a diventare vizioso.
Vorrei riportare questo suggerimento, sempre di Luciano Casolari : “Sarebbe opportuno che i mezzi di comunicazione parlassero del suicidio anche quando non fa notizia e sdoganassero la depressione come una malattia “normale” che può capitare nella vita di ognuno di noi dal ricco al povero, intelligente e stupido, famoso o sconosciuto”.

Dunque che rapporto c’è tra crisi economica e suicidio?

Come sa bene chi si occupa di salute mentale e di disagio, il suicidio è sempre un evento che culmina dopo un lungo tempo di sofferenza, crisi e profondo disagio, talvolta depressione. Spesso le radici di tale disagio sono profonde e vanno al di là e oltre la contingenza dei fatti. La crisi economica come perdita di certezze, della dignità legata al lavoro e alla indipendenza può essere dunque una fattore che fa precipitare la situazione, un evento scatenante, appunto. In quest’ottica il fattore economico è solo superficialmente la causa, che va cercata oltre, non è mai univoca bensì è il risultato di un intersecarsi di fattori interni ed esterni.

E comunque anche questo non è sufficiente, a mio vedere,  per spiegare il fenomeno. Quello che emerge è un disagio sociale enorme e i tentativi di suicidi come gli atti veri e propri sono il culmine di una disperazione che investe totalmente la persona, che si trova senza lavoro, senza casa, senza un minimo supporto sociale, completamente derubata e spogliata della minima dignità umana. Come magistralmente descrive Massimo Recalcati: “Coloro che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi, che non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine perché hanno perduto la possibilità del lavoro come possibilità che assegna dignità e valore alla vita umanizzandola, realizzandola socialmente.” (Pag. 50) “Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre” Feltrinelli Editore,  2013.

Perché qui non solo si tratta di crisi e di depressione individuali. Non si tratta forse solo di una questione psicologica, inscrivibile nella storia del singolo ma sono convinta che sia un fenomeno che parla la lingua dei nostri tempi e che esula dalla singolare e particolare storia individuale. Perché se crisi è opportunità, possibilità di cambiamento vero e profondo, è anche vero che essa può essere caduta nel baratro della disperazione, nel senso assoluto di mancanza di speranza, di mancanza di futuro.

E che soluzioni ci poterebbero essere?

In realtà, a mio modo di vedere, molto si può fare, nel senso della prevenzione. Oltre saper cogliere per tempo i segnali di disagio e di sofferenza, lavorando su questi, al di là della contingenza, sarebbe di fondamentale importanza predisporre delle reti di sostegno, che permettano alla persona di poter cadere ma senza ritrovarsi da sola nel baratro, nel vuoto, nella solitudine.
Predisporre momenti di ascolto, dunque, così come aiutare chi ha perso il lavoro a riformulare un progetto di vita; aiutare, in sostanza, chi è in difficoltà a chiedere aiuto e a trovare una rete di sostegno, di nuove opportunità.La riposta deve avvenire, a mio avviso, su due piani: uno strettamente individuale e l’altro su un piano più amplio e sociale, della collettività. In fondo sarebbe bello pensare questa crisi anche come una opportunità per ridefinire in termini più solidali il vivere insieme.

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